Reato di diffamazione aggravata sui social network
La particolarità del requisito dell’assenza dell’offeso e l’importanza dell’indirizzo IP nel quadro probatorio relativo alla fattispecie del reato ex art. 595 del codice penale
Con riferimento alla fattispecie del reato di diffamazione, sembra doveroso ricordare che l’art. 595 c.p. è un reato comune di pericolo che si verifica con la comunicazione dell’offesa a più persone; quando la comunicazione avviene in tempi diversi, esso si consuma nel momento in cui si perfeziona la comunicazione con la seconda persona. Per quanto attiene l’elemento soggettivo, unanime dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere applicabile il dolo generico, anche nella forma eventuale.
- Diffamazione: tre requisiti caratteristici
- Le esimenti applicabili
- L’importanza dell’indirizzo Ip
Diffamazione: tre requisiti caratteristici
A tal proposito la dottrina è unanime nel ritenere che l’elemento soggettivo della diffamazione consista in tre requisiti caratteristici:
- a) assenza dell’offeso;
- b) offesa alla reputazione di una persona;
- c) comunicazione con più persone.
Per quanto il terzo requisito sia sicuramente integrato nei casi di comunicazione via social network (che definiscono la diffamazione aggravata ex art. 595 co. III c.p.), sarà opportuno analizzare i requisiti sub a) e b).
L’assenza dell’offeso
Con riferimento al requisito dell’assenza dell’offeso, secondo la dottrina (Giachello – Giurisprudenza Penale) l’espressione “fuori dei casi indicati all’articolo precedente” contenuta nell’art. 595 c.p. deve interpretarsi nell’ottica della non presenza del soggetto passivo nel momento in cui il reato si consuma. La ragione consiste nell’impossibilità per il medesimo di difendersi, non potendo percepire direttamente l’offesa. Proprio questa analisi rende la diffamazione delitto non solo più grave ma soprattutto diverso rispetto all’ingiuria, fattispecie prevista all’art. 594 c.p. ed ora abrogata.
Un evidente ossimoro attinente la diffamazione (ad esempio) a mezzo Facebook consiste in un aspetto giuridico importante evidenziato in dottrina ma anche in giurisprudenza: sussiste un’esimente allorquando la critica venga formulata alla presenza del criticato o, quantomeno, di coloro che possano contrastarlo. Dato il requisito dell’assenza infatti le frasi proferite devono essere considerate offensive qualora estemporanee, cioè pronunciate al di fuori di una discussione alla quale possa partecipare la persona offesa o soggetti terzi in grado di difenderne l’onore. Pertanto continueranno ad essere diffamatorie frasi pronunciate sul proprio profilo privato o all’interno di commenti che nulla hanno a che vedere con il post di riferimento. Viceversa, qualora sia in corso una discussione vera e propria, che trae origine da un post privo dell’intento di denigrare, ma anzi diretto ad aprire una discussione ovvero di commentare una notizia, la conseguenza è che non si potrà parlare di vera e propria diffamazione, difettando del requisito in questione.
L’offesa alla reputazione della persona
Si consideri ora brevemente il secondo requisito, l’offesa alla reputazione della persona. In ordine all’offesa alla reputazione, si fa riferimento ad un reato in grado di ledere o di porre in pericolo un diritto costituzionalmente tutelato, che è quello all’onore e alla reputazione della persona offesa: si tratta di un reato di pericolo. Risulta evidente pertanto un ragionamento che tenga conto della reale offensività della condotta, anche potenziale. La stessa giurisprudenza di legittimità considera Facebook, ad esempio, quale bacheca alla quale la persona quotidianamente si approccia e nella quale si è continuamente “bombardati” con migliaia di informazioni impossibili da ricordare tutte e, pertanto, bastano pochi post letti successivamente a sommergere il ricordo di quanto visto in precedenza.
Si consideri altresì che “ai fini della valenza lesiva il messaggio deve essere contestualizzato, ossia rapportato al contesto spazio-temporale nel quale è stato pronunciato, tenuto altresì conto dello standard di sensibilità sociale del tempo e del contesto familiare o professionale in cui si colloca” (Cass. Pen., sez. V, 13.07.2015, n. 451).
Le esimenti applicabili
Le censure eventualmente offensive dell’altrui reputazione possono essere considerate anche espressione del legittimo diritto di critica se oggettivamente riferite all’oggetto della discussione e non trasmodanti nella gratuita denigrazione della persona cui sono destinate (Cass. Pen., n. 28685/2013). L’offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato deve essere valutata nel contesto nel quale le espressioni vengono pronunciate e le affermazioni spesso sono ampiamente coperte dall’esimente del diritto di critica. È opportuno ricordare che la giurisprudenza di legittimità da tempo risolve i problemi legati a Facebook secondo il bilanciamento di contrapposti interessi, che chiama in causa la scriminante di cui all’art. 51 c.p. poiché la diffamazione offende sì l’onore e la reputazione di una persona, ma allo stesso tempo applicando troppo rigorosamente questa fattispecie si comprimerebbe il diritto di critica. Come noto, affinché sussista tale scriminante occorre veridicità, continenza ed interesse per la notizia. Per quanto riguarda la continenza, è noto che la Cassazione riconosce che il soggetto agente perde la propria imparzialità – ancor più di quanto già consentito – ed ammette toni aggressivi. La critica deve consistere in un dissenso motivato, anche estremo, rispetto alle idee ed ai comportamenti altrui purché tale modalità espressiva sia proporzionata e funzionale all’opinione e alla protesta in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi (Cass. Pen., sez. I, 13.06.2014, n. 36045). Secondo la giurisprudenza, pertanto, il diritto di critica postula un ulteriore affievolimento dell’incidenza di frasi diffamanti.
Ulteriore causa di non punibilità applicabile è sicuramente quella di cui all’art. 599 c.p. ovvero la provocazione. I requisiti fondamentali sono l’elemento oggettivo dell’ingiustizia del fatto altrui oltre alla conseguenza diretta, cioè l’aver agito nello stato d’ira cagionato dal fatto ingiusto. Vi è chi ritiene che ulteriore requisito fondamentale sia la proporzionalità delle condotte, anche se parte della dottrina propende per la tesi negativa. È necessario, ai fini della sussistenza dell’esimente, che la reazione offensiva si verifichi subito dopo il fatto, nonostante la giurisprudenza di legittimità ammetta il riconoscimento della provocazione anche a distanza di tempo dal fatto provocante.
L’importanza dell’indirizzo Ip
Con la recentissima sentenza numero 5352 del febbraio 2018 la Corte di Cassazione affronta il delicato tema dell’individuazione dell’autore di un messaggio diffamatorio pubblicato sul web, in particolare con riferimento alla piattaforma Facebook.
La Suprema Corte evidenzia come a prescindere dal nickname utilizzato, l’accertamento dell’IP di provenienza del post può essere utile per verificare unicamente il titolare della linea telefonica associata. Ulteriore e decisivo argomento è spesso caratterizzato dalla carenza istruttoria circa la verifica tecnica dei tempi e degli orari della connessione.
Non ci sono altri termini per vedere la questione: spesso non vi è modo di conoscere l’identità dell’utilizzatore del profilo Facebook nel frangente in esame.
D’altronde gli elementi indicati sono spesso corroborati dalle scelte della maggiore parte delle Procure della Repubblica presso i Tribunali: è sempre più frequente il ricorso a richieste di archiviazione per fattispecie come quelle descritte. Si consideri che per i commenti asseritamente diffamatori che avvengono unicamente attraverso la rete Facebook, per risalire all’identità dell’autore del reato occorrerebbe procedere a compiere accertamenti informatici, richiedendoli all’azienda statunitense Facebook Inc. con invio dei dati spesso impossibile per le condizioni di reciprocità non sussistenti con gli U.S.A. in ordine a tale reato. Inoltre l’individuazione dei file log non permetterebbe neppure di risalire con elevata probabilità logica all’individuazione del responsabile del fatto di reato contestato: l’analisi suddetta consente di stabilire se un determinato utente in un particolare giorno e ora si è collegato alla rete tramite un provider, data e ora della navigazione, l’indirizzo IP utilizzato, anagrafica dell’intestatario di un contratto di utenza Internet. È importante capire, in ogni caso, che l’indirizzo IP potrà al massimo costituire un mero indizio.
L’individuazione dell’indirizzo IP non costituisce l’elemento probatorio univoco, poiché se da un lato permette di individuare l’utenza telefonica presso cui è avvenuto l’accesso a Internet, dall’altro non consente di giungere all’identificazione certa o altamente probabile del responsabile.
Quanto affermato si inserisce nel solco del ragionamento effettuato dalla Suprema Corte che ritiene insufficienti le motivazioni delle sentenze di condanna qualora sia prospettato il dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputato, così mal utilizzando il criterio legale di valutazione della prova di cui all’art. 192 co. II c.p.p., quanto alla convergenza e precisione degli indizi posti a base della ritenuta responsabilità.
Avv. Filippo Antonelli
Fonte: Reato di diffamazione aggravata sui social network
(www.StudioCataldi.it)