La tutela dell’identità digitale e le false identità

La nuova presa di coscienza passa dalla specificità normativa.

 

1. FURTO DI IDENTITÀ DIGITALE

I dati sui cybercrime sono allarmanti, si tratta del fenomeno più vasto su scala mondiale.Solitamente il furto d’identità digitale è un’azione prodromica alla commissione di ulteriori illeciti, con alcune fasi che distinguono tale azione:

  • acquisire i dati sensibili o informazioni personali della vittima;
  • possesso e messa in commercio di tali dati;
  • utilizzo di tali informazioni per compiere ulteriori reati

Il furto d’identità digitale non è previsto nel nostro ordinamento penale quale fattispecie autonoma di reato.

L’ultima volta che la Giurisprudenza ha affrontato la questione, nel 2014, ancora una volta si è adoperata una differente fattispecie di reato, associandola al furto di identità digitale (come può essere il delitto di sostituzione di persona, ai sensi dell’art. 494 c.p.).

Certamente l’identità digitale costituisce un bene giuridico nuovo, esso è composto sia dal diritto di non essere falsamente descritto, o travisato, sul web, sia dal diritto di utilizzo estremamente esclusivo dei propri dati personali e non degli strumenti informatici (così Chiara Crescioli – Diritto Penale Contemporaneo – 5/2018).

Abbiamo oggi a disposizione identità digitali che sono veri e propri alter ego che espandono la nostra memoria, le nostre capacità di azione, di informazione e di comunicazione.

Pare sia arrivato il momento di abbandonare l’utopistica idea, per certi versi romantica, della “rete” intesa come spazio e luogo libero dal diritto, un porto franco non limitabile o condizionante.

2. UN’APPLICAZIONE PRATICA: IL FALSO PROFILO SOCIAL

La terza sezione penale della Suprema Corte (n. 42565/2019) approfondisce alcuni aspetti interessanti rispetto alla creazione di un falso profilo social, attraverso l’utilizzo di dati personali altrui.

Si tratta del reato di cui all’art. 167 D. Lgs. 196/2003 (testo vigente rispetto alla commissione dei fatti, prima dell’avvento del GDPR Reg. UE 2016/679 e quindi del D.Lgs. 101/2018), per l’illegittima diffusione dei dati personali.

La condotta in oggetto consisteva nell’utilizzazione, ad insaputa della persona offesa, dei dati personali di quest’ultima che era stata iscritta dall’imputato su un social networkmediante un profilo falso.

In particolare alla voce “sesso” di tale profilo erano stati inseriti i dati della persona offesa.

In tali indagini l’analisi dell’indirizzo IP è particolarmente importante ai fini probatori.

In particolare, non era dato sapere chi altri potesse mai essere a conoscenza dell’account creato dall’imputato, al punto da potervi accedere ed inserire i dati della persona offesa.

 

3. ALCUNI RILIEVI PENALISTICI: SI TRATTA DI REATO PERMANENTE

Nel rigettare l’avvenuta prescrizione contestata dal ricorrente, la Suprema Corte qualifica il reato del trattamento illecito dei dati personali come reato permanente.

Il testo previgente rispetto al G.D.P.R. (le cui fattispecie sono oggi rintracciabili, sostanzialmente in sovrapposizione, nei numeri 1 e 2 dell’art. 4 del Regolamento UE), individua la condotta di diffusione come la conoscenza dei dati fornita ad un numero indeterminato di soggetti. Nel caso in oggetto la condotta di diffusione, programmata e destinata a raggiungere un numero indeterminato di soggetti, si caratterizza (così Michele Iaselli – Altalex – 15.11.2019) per la continuità dell’offesa derivante dalla persistente condotta volontaria dell’agente (che ben avrebbe potuto rimuovere i dati personali resi noti ai frequentatori del social network.

4. CONCLUSIONI: UNO SGUARDO AL FUTURO

Siamo oggi di fronte ad una “frontiera mobile” che è indicativa di future tendenze, con inesplorate potenzialità già anticipate dalla c.d. intelligenza artificiale.

Ad avviso di chi scrive si può parlare di rivoluzione, proprio perché il fenomeno dell’identità digitale investe oggi ogni sfera delle nostre vite, andando ben oltre la comunicazione e l’intrattenimento.

Tale rivoluzione coinvolge lo svolgimento della nostra vita e porta con sé opportunità e vantaggi, ma anche difficoltà e conflitti che spesso possono tradursi in comportamenti illeciti, che minacciano diritti individuali e collettivi degni di protezione giuridica.

Il rischio concreto è che l’identità digitale sfugga al controllo dell’uomo.

Sembra pertanto fondamentale aggiornare il nostro ordinamento in un’ottica di apposita tutela dell’identità digitale, andando a proteggere e garantire specificamente profili della nostra vita che, come evidenziato in narrativa e nel caso portato ad esempio, continuano a prestare il fianco a sempre più evidenti attacchi e soprusi.

Anche nel caso di un “comune” profilo del social network che utilizziamo ogni giorno.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: LA TUTELA DELL’IDENTITÁ DIGITALE E LE FALSE IDENTITÁ

(www.juris-tech.it)

Per il giudice di pace di Forlì, più infrazioni commesse in un breve lasso di tempo sono punite con un’unica sanzione

 

Il caso trattato dallo scrivente si riferisce alla possibile applicazione dell’art. 8 L. 689/1981 alla normativa in tema di ZTL. 

  • Il fatto: verbali violazione Ztl
  • Ztl: i principi della Cassazione
  • Ztl, più violazioni, unica sanzione

Il fatto: verbali violazione Ztl

Il conducente di un’autovettura si vedeva notificare 4 verbali di contestazione in via successiva, ovvero dopo che questi aveva già compiuto la medesima condotta (ingresso in zona ZTL senza autorizzazione) reiterata, in un breve lasso di tempo.
In particolare il conducente non è stato preventivamente edotto della irregolarità della propria condotta (anche considerando la difficile interpretazione del regolamento).
Lo stesso si vedeva costretto ad opporre tutti i verbali avanti il Giudice di Pace.

Ztl: i principi della Cassazione

La Giurisprudenza (Cass. Civ., ordinanza 22028/2018) stabilisce che, in caso di plurimi accessi nella ZTL, ogni accesso effettuato non può essere considerato automaticamente alla stregua di una violazione autonoma, di per sé meritevole di apposita sanzione.
Ciò perché il numero di transiti nella zona a traffico limitato non incide sulla coscienza e volontà di violare la regola, tanto che alcuni accessi, nel caso in oggetto, avvenivano a distanza di nemmeno 24 ore l’uno dall’altro.
Pertanto sembra chiaro che in queste occasioni, chi ometta di utilizzare l’autovettura con il permesso operativo, andrà sanzionato una sola volta, poiché il numero di transiti nel breve lasso di tempo considerato non incide certamente sulla sua coscienza o volontà di violare la norma.
D’altronde la funzione educativa della sanzione non può esercitarsi sul soggetto fintanto che questi non sia reso edotto della sanzione irrogata.

Ztl, più violazioni, unica sanzione

Nel caso di specie il ricorrente ha avuto notizia della prima violazione solo dopo la commissione delle altre.
Pertanto si chiedeva al Giudice di Pace di annullare tutti i verbali elevati, ad eccezione del primo in ordine di tempo.
Così il Giudice di Pace di Forlì accoglieva la tesi difensiva (sentenza n. 976/2019), considerato il rilevante numero di violazioni identiche contestate al ricorrente nel breve arco temporale intercorso, concernenti la medesima condotta.
Si ritiene pertanto appropriata la ratio dell’istituto del concorso formale di cui all’art. 8 L. 689/1981.
Vista la mancata consapevolezza da parte del trasgressore nel compiere le reiterate identiche condotte in violazione della normativa di cui agli artt. 7/9 C.d.S., anche considerando che dopo la notifica del primo verbale questi ha immediatamente omesso di transitare nel varco vietato), le identiche condotte reiterate si sono in realtà risolte in una unica condotta.
Il ricorrente violava la medesima normativa, con una unica condotta consistita nell’accesso ripetuto nel breve lasso di tempo considerato, allo stesso varco di ZTL nella inconsapevolezza di violare la normativa.
Conseguentemente appare adeguata, conclude il Giudicante, l’applicazione di una unica sanzione (quella riferita al primo verbale) al minimo edittale.

Fonte: ZTL: plurime infrazioni corrispondono a plurime sanzioni?
(www.StudioCataldi.it)

 

Avv. Filippo Antonelli

Limiti e requisiti delineati dalla Giurisprudenza della Cassazione.

1. IL DIBATTITO

Il dibattito nasce con la sentenza 31022/2015 SS.UU. Penali, pronuncia che getta le basi sulle quali muoversi, a partire dalla nozione di dato informatico e dalla sua riconducibilità al concetto di “cosa” o “bene giuridico”.

Affermando la possibilità di procedere al sequestro (in quel caso, preventivo) del dato informatico (file), il discorso si muove verso limiti e requisiti che tale operazione deve rispettare.

La Giurisprudenza prova a colmare lacune normative, approfondendo la possibilità di sottoporre lo strumento informatico al sequestro (preventivo e/o probatorio).

Con le pronunce (ravvicinate) n. 37639 dell’11.09.2019 e n. 38456 del 17.09.2019 si indicano alcuni requisiti e limiti che devono guidare l’operatore giuridico.

2. LA SENTENZA PILOTA (SS.UU. Penali n. 31022/2015)

Il caso esaminato in tale pronuncia ha ad oggetto il possibile sequestro (seppur preventivo) di una testata giornalista online contenente un articolo diffamatorio.

Dopo aver affermato che il quotidiano online ha le stesse caratteristiche di quello cartaceo, le Sezioni Unite concludono affermando che non è possibile procedere a sequestro del medesimo, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge.

Ampliando il tema al concetto di dato informatico, ci si chiede se il medesimo possa essere comunque oggetto di “cautele reali”, quale strumento la cui libera disponibilità in capo all’indagato/imputato “crea problematiche” all’Autorità Giudiziaria che procede, in relazione al pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati (sequestro preventivo); oppure ancora quando le problematiche sono relative alle indagini da espletare e postulano una sottrazione necessaria ai fini probatori (sequestro probatorio).

Se un computer o una chiave USB può più facilmente ricondurre al concetto di cosa o bene, un file al suo interno pone problemi più significativi a livello giuridico. Affermano i Giudici che la dimensione fisica del file è data proprio dal supporto fisico (computer, chiave USB) che lo contiene. Il dato informatico è quindi sempre incorporato in un supporto fisico.

3. LA NATURA DEL BENE SEQUESTRATO

La Suprema Corte afferma nella sentenza in commento che il sequestro avente ad oggetto strumenti informatici deve essere motivato e la motivazione del provvedimento deve necessariamente dare conto dell’indispensabile sottrazione dello strumento informatico.

In relazione a tale operazione giocano un ruolo chiave le particolari caratteristiche di tali strumenti.

Ciò che deve essere motivato e spiegato dall’Autorità che procede a sequestro, a partire dalla configurabilità in astratto del reato per cui si procede, è chiarire se le indagini non siano altrimenti eseguibili se non sottraendo il bene informatico al possesso dell’indagato.

In altre parole: l’indagine necessita, senza possibili alternative, del trasferimento dello strumento informatico nella disponibilità dell’Autorità Giudiziaria.

Tale valutazione deve essere, a seconda della fattispecie di reato per cui si procede, modulata da parte del P.M. anche in relazione alla natura del bene che si intende sequestrare, tenuto conto della particolarità degli strumenti informatici e delle loro particolari caratteristiche.

Questo conduce ad un esame particolarmente rigoroso ed approfondito del rapporto che lega lo strumento informatico al reato per il quale si procede, anche per rendere evidente la finalità probatoria perseguita.

4. GARANZIE DIFENSIVE

Ulteriormente si segnala la più recente delle pronunce sul tema (Cass. Pen., n. 38456/2019 – versione integrale scaricabile di seguito), poiché il sequestro può colpire il singolo apparato, il dato informatico in sé, ovvero il medesimo dato quale mero “recipiente” di informazioni: sta alla parte interessata specificare se e quale interesse viene leso da tale pratica, sulla base di elementi sintomatici ed univoci.

In tema di acquisizione della prova, l’Autorità Giudiziaria che debba esaminare una mole consistente di dati rilevanti ai fini delle indagini, può disporre sequestri anche estesi.

Ciò che più rileva in ottica difensiva è specificare quale o quali interessi sono tuttavia lesi da tale azione dell’Autorità; interessi concreti ed attuali, specifici ed oggettivamente valutabili, sulla base di elementi univocamente indicativi della lesione di interessi primari quali quello alla riservatezza o al segreto conseguenti all’indisponibilità temporanea delle informazioni contenute nei documenti informatici sottoposti a sequestro.

Tale concetto è ancora più rilevante in ottica difensiva se si pensa al caso di mancata restituzione in tempi ragionevoli del materiale sequestrato, poiché l’indagato potrà ben far valere le proprie ragioni, anche e soprattutto in quei casi di spoglio di dati utili e/o sensibili, attraverso operazioni che addirittura alterino i dati presenti nei personal computers.

5. CONCLUSIONI

Nella maggior parte dei casi la prova di un reato, ai nostri tempi, è nascosta tra le cartelle dei dispositivi elettronici ed informatici che caratterizzano quotidianamente le nostre azioni più comuni, oltre che professionali.

La Legge n. 48/2008 illustra le norme basilari e le c.d. best practices da seguire per acquisire una prova digitale o informatica (la c.d. digital forensics). Tuttavia il nostro Legislatore non ha ancora indicato nel dettaglio quali siano le modalità esecutive standard da applicare nei casi in oggetto.

Il punto di partenza resta uno: ai fini di una corretta acquisizione dei dati informatici alle indagini, è obbligatorio per l’Autorità mantenere la loro integrità e non alterabilità.

Sulla scia di quanto affermato, sembra non più rinviabile una modifica normativa di settore che detti linee guida da seguire pedissequamente, per non pregiudicare i diritti degli indagati nelle procedure in oggetto.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: IL SEQUESTRO DEI DATI E DEGLI STRUMENTI INFORMATICI

(www.juris-tech.it)

Reati informatici: la responsabilità delle società

Filippo Antonelli

La responsabilità di persone giuridiche ed enti per i reati informatici.

All’interno dell’azienda i rischi correlati al crimine informatico sono enormi: la maggior parte dei processi aziendali sono oggi informatizzati o digitalizzati.

D’altra parte il D.Lgs. 231/2001 prevede espressamente che tra l’autore del reato e l’azienda in questione non debba necessariamente configurarsi un rapporto di lavoro subordinato, essendo rilevabile il disvalore penale anche nei rapporti con i terzi, siano essi collaboratori o consulenti esterni.

In particolare è fondamentale che le aziende valutino, secondo un ragionamento ex ante, la reale affidabilità di tali consulenti o collaboratori, con la necessità di prevedere espressamente nei contratti di lavoro una clausola in tema di responsabilità in conseguenza delle violazioni di cui al D.Lgs. 231/2001 (così D. Vozza in S News Informazione per la sicurezza – 23.10.2019).

Come ormai noto, la prevenzione dei reati informatici passa inevitabilmente attraverso la predisposizione di misure di sicurezza o “modelli di organizzazione”, per definirli come il D.Lgs. 231/2001.

  1. UN PASSO INDIETRO: LA RESPONSABILITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE NEL D.LGS. 231/2001

La normativa in oggetto ha travolto il principio societas delinquere non potest, secondo cui le società non potrebbero essere soggetti attivi di reati, introducendo nel nostro ordinamento una nuova forma di responsabilità, a metà tra responsabilità amministrativa e afflittiva.

In ogni caso essenziale ai fini della configurabilità della responsabilità penale dell’ente è la realizzazione di una fattispecie penale da parte di un soggetto (apicale o sottoposto) ai sensi dell’art. 5 del decreto, che abbia agito nell’interesse (valutazione ex ante) e a vantaggio (ex post) dell’ente. A tali soggetti sono equiparati coloro che esercitano, di fatto, tali poteri o facoltà.

Dal punto di vista della natura di tale responsabilità, l’orientamento dominante parla di una colpa o colpevolezza in organizzazione.

Ciò che ai nostri fini più rileva, tuttavia, è la presenza o meno di un Modello di Organizzazione e Gestione (MOG) efficacemente adottato dalla società per prevenire e fronteggiare i rischi connessi alla realizzazione di tali condotte illecite.

Naturalmente tale modello deve essere efficacemente adottato e attuato prima della commissione del fatto: la responsabilità dell’ente è esclusa se il Modello è stato eluso fraudolentemente dal soggetto apicale che ha commesso il fatto (così D. Fondaroli in Cybercrime – UTET 2019).

  1. I REATI INFORMATICI “COMMESSI” DALLA PERSONA GIURIDICA

I reati informatici fanno parte della previsione di cui al D.Lgs. 231/2001, seppur non in modo preminente.

Quando parliamo di reato informatico intendiamo un possibile duplice significato: reati commessi medianti strumenti informatici ovvero reati che hanno conseguenze di natura informatica.

L’utilizzo dello strumento informatico è trasversale a tutti i membri dell’azienda: è un nodo nevralgico.

Certamente il reato informatico deve rientrare nel catalogo dei reati presupposto o comunque previsto dal D.Lgs. 231/2001, ovvero da altra norma che richiami il decreto in oggetto.

Gli articoli 24, 24 bis ed anche 25 novies D.Lgs. 231/2001 prevedono i reati informatici di cui all’oggetto, in particolare la seconda norma differenzia la cornice sanzionatoria a seconda della tipologia di reato.

Si consideri ad esempio la frode informatica: essa è punita con la sanzione pecuniaria sino a 500 quote; nel caso in cui l’ente abbia conseguito un profitto di rilevante entità o è derivato un danno di particolare gravità, la sanzione va da 200 a 600 quote. In relazione alla commissione del reato possono essere applicate la sanzioni interdittive.

L’art. 24 bis stabilisce altresì la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito e il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Le ipotesi di configurazione della responsabilità sono molteplici, ad esempio: la società potrebbe giovarsi della commissione del reato mediante alterazione di registri informatici ovvero ancora la produzione alla p.a. di documenti falsi attestanti l’esistenza di condizioni essenziali per partecipare ad una gara, ottenere licenze/autorizzazioni/finanziamenti (così D. Fondaroli in Cybercrime – UTET 2019).

Nonostante la potenzialità dirompente di tale normativa che, per ovvi motivi, in questa sede non può essere approfondita interamente, le rassegne giurisprudenziali non sono di grande rilievo. Il dato è forse sintomatico della difficoltà di applicazione della disciplina, a partire sicuramente dalla difficile individuazione della persona fisica materialmente autrice del reato c.d. presupposto.

Un secondo problema è la necessaria verifica dell’interesse o del vantaggio che la società ha avuto o tratto dal reato.

La Giurisprudenza formatasi sul tema ha recentemente (Cass. Pen., sez. IV, n. 53285/2017) stabilito che è ravvisabile l’interesse dell’ente nel caso in cui l’omessa predisposizione dei sistemi di sicurezza, o l’inadeguatezza dell’attività di formazione e informazione dei lavoratori, determini un risparmio di spesa.

La portata trasversale dei reati informatici fa sì che i potenziali destinatari di tali ragionamenti siano tutti coloro che abbiano accesso al sistema informatico di cui è dotata un’azienda.

  1. ALCUNI CENNI DI PRIVACY

La questione della tutela della riservatezza o privacy si ripropone con forza, basti pensare alla definizione di dato personale: qualsiasi informazione riguardante una persona identificata o identificabile.

Gli infiniti dati personali con i quali l’azienda entra in contatto necessitano di banche dati che impongono presidi adeguati.

La prevenzione di tali reati passa attraverso la predisposizione di necessarie misure di sicurezza, per assicurarla da alcune delle gravi ripercussioni di cui al D.Lgs. 231/01; ma il rispetto della normativa privacy, prevedendo l’adozione di modelli organizzativi adeguati, consente di prevenire la commissione dei reati presupposto del decreto.

Essi assumono valore esimente solamente se attuati e portati a conoscenza di dipendenti e stakeholders.

https://juris-tech.it/reati-informatici/reati-informatici-la-responsabilita-delle-societa/

Indebita compensazione e mancato versamento di somme dovute

Un caso particolare in relazione all’art. 10 quater D.Lgs. 74/2000 e al ruolo del legale rappresentante di una società

 

Il delitto di indebita compensazione ex art. 10 quater D.lgs. n. 74/2000 punisce con la reclusione “da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro”. Il secondo comma, inoltre, prevede che: “è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro”.

Gli amministratori di società possono purtroppo trovarsi a fare i conti con una fattispecie che, come indicato sopra, punisce chiunque (in particolare nel caso di specie si parla dell’amministratore di una società cooperativa) non versi le somme dovute, attraverso ad esempio una condotta di mancata presentazione dell’Unico o della dichiarazione IVA, relativamente ad un anno d’imposta, utilizzando in compensazione dei crediti non spettanti, così superando la soglia (prevista dal legislatore) di punibilità pari ad Euro 50.000,00.

  • La vicenda
  • La difesa
  • L’assoluzione

La vicenda

Il credito in oggetto, nel caso in esame, non poteva essere utilizzato poiché, ai sensi dell’art. 38-bis co. II D.P.R. 633/72, mancante del presupposto oggettivo: esso dovrebbe giustificare la richiesta di compensazione infrannuale, in relazione ad operazioni non soggette ad IVA, in congruità con l’attività esercitata dalla persona giuridica.

Nel caso affrontato dal sottoscritto, trattandosi di attività di assistenza sociale/cooperativa sociale, il presupposto risultava del tutto incongruente con l’attività esercitata, in più il credito non risultava giustificato contabilmente, in assenza di Quadro TA del modello IVA TR.

L’ipotesi di reato pertanto ben si inseriva nell’alveo dell’indebita compensazione, poiché ai sensi dell’art. 10 quater D.Lgs. 74/2000, la disposizione di cui all’art. 10 bis si applica, nei limiti previsti, anche a chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti, ai sensi dell’art. 17 D.Lgs. 241/1997.

 

La difesa

Nel caso di specie pertanto colui che risultava essere amministratore della società alla data del commesso reato, si ritrovava a ricevere una richiesta di rinvio a giudizio, a seguito della querela presentata dall’Agenzia delle Entrate, con successiva fissazione di udienza preliminare.

L’amministratore di una società ha evidentemente responsabilità in ordine a quanto indicato, ma a differenza di molte altre fattispecie penali in ambito fiscale/societario, nell’ipotesi in oggetto, il momento consumativo del reato può giocare un ruolo decisivo in ottica difensiva.

Può accadere infatti, per questa tipologia di operazioni fiscali, che il precedente amministratore venga considerato, nonostante il cambio delle cariche, quale amministratore ancora c.d. di fatto.

Nella fattispecie in esame tuttavia, considerando il cambio della carica sociale avvenuto più di un mese prima della commissione del fatto, la quale veniva considerata all’interno di un arco temporale ampio, la situazione fin da subito sembrava prendere una piega favorevole per l’imputato.

Come affermato dalla sentenza n. 45234 Cassazione Penale del 26.10.2016, il reato in oggetto si consuma al momento della presentazione del modello F24, essendo appunto questa la condotta con la quale si realizza l’indebita compensazione, ai sensi della normativa in parola (D.Lgs. 241/1997).

In altri termini ciò che penalmente rileva è il momento del mancato versamento causato dall’indebita compensazione, essendo la condotta decettiva del contribuente in sé e per sé perfetta proprio mediante l’utilizzo del modello di versamento in questione.

Non sempre, ma accade che le persone giuridiche come cooperative sociali e simili vedano avvicendamenti nel ruolo di legale rappresentante.

Ne deriva una particolare attenzione che il difensore dovrà prestare al mutamento delle cariche sociali.

 

L’assoluzione

Nel caso in oggetto, già in udienza preliminare la vicenda poteva essere riportata nei giusti binari in ottica difensiva.

Da una breve indagine condotta sulla banca dati/servizio telematico Entratel dell’Agenzia delle Entrate, si poteva infatti individuare che oltre 30 giorni prima della data del commesso reato (quindi la presentazione del modello F24), l’amministratore della società era cambiato.

Oltre a ciò, si era in possesso di un verbale d’assemblea che ratificava le dimissioni dell’imputato dalla carica di legale rappresentante.

La produzione di tale documentazione ha convinto il GUP a sospendere il procedimento per ordinare immediate indagini alla PG in servizio presso il Tribunale, la quale ha confermato attraverso un controllo incrociato tra banche dati dell’Agenzia delle Entrate e delle Camere di Commercio, le deduzioni della difesa.

Quanto sopra argomentato ha portato all’assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto, ovvero una delle formule assolutorie più ampie, a seguito di una pronuncia ex art. 425 c.p.p.

Conseguentemente gli atti sono stati trasmessi al PM, in relazione all’amministratore realmente in carica al momento della consumazione del reato.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: Indebita compensazione e mancato versamento di somme dovute
(www.StudioCataldi.it)

Il pernottamento graduale in tema di collocamento del minore e le spese straordinarie. Commento all’interessante decreto del tribunale di Roma.

 

Come affermato dalla Società italiana scienze forensi, l’affidamento materialmente condiviso è considerato quale migliore realizzazione delle esigenze della prole di usufruire di una equilibrata relazione emotivo-relazionale con le due figure genitoriali.

  • Il principio di bigenitorialità
  • Orientamenti delle corti di merito
  • Il caso del tribunale di Roma
  • La decisione del collegio

Il principio di bigenitorialità

In generale l’affidamento condiviso è la regola che disciplina l’affidamento dei figli a seguito della cessazione della relazione affettiva e quindi della convivenza tra i genitori.

La giurisprudenza richiama le indicazioni della CEDU secondo cui, affinché il principio in oggetto abbia attuazione, al diritto del figlio a mantenere rapporti con entrambi i genitori (art. 337 ter c.c.) debba corrispondere il diritto di ciascun genitore a mantenere rapporti effettivi con i figli.

Ai sensi degli artt. 147, 315 bis e 316 c.c., nell’interesse del figlio ad una crescita serena il genitore deve essere posto nelle condizioni di esercitare la responsabilità genitoriale che gli compete.

Orientamenti delle corti di merito

Allorché si tratti di individuare le concrete modalità di esercizio e attuazione del diritto del genitore a mantenere i rapporti con i figli, si deve tuttavia sempre tenere conto delle particolarità di ogni caso.

Un primo particolare che è di fondamentale importanza è l’età anagrafica del minore.

Anche la CEDU affermerebbe che la coercizione per il raggiungimento dell’obiettivo di mantenimento del legame familiare deve essere sempre usata con estrema prudenza, tenendo conto in particolare dell’interesse superiore del minore.

Eventuali provvedimenti impositivi di alcuni rapporti, visite ecc. possono effettivamente non corrispondere a quello che deve essere sempre perseguito come obiettivo nel diritto di famiglia, ovvero l’interesse esclusivo del minore.

Se infatti le modalità sono imposte e non frutto dell’elaborazione spontanea delle relazioni affettive genitoriali, esse finirebbero per risultare controproducenti e pregiudicanti il rapporto padre-figlio oltre che il bene del figlio stesso.

Il caso del tribunale di Roma

Le parti depositavano ricorso al fine di ottenere provvedimenti che riguardassero l’affidamento e il mantenimento del figlio di appena due anni, nato dalla relazione di convivenza intrattenuta e poi terminata tra i genitori.

La madre in particolare si allontanava dall’abitazione familiare in cerca di lavoro nonché a causa del comportamento disinteressato del padre. Pertanto quest’ultima chiedeva l’affidamento condiviso del figlio minore, con collocamento prevalente presso la propria abitazione e con conseguente disciplina di frequentazione padre-figlio nelle seguenti modalità:

– un giorno di visita a settimana, una domenica ogni due settimane, senza pernottamento;

– periodi di festività senza pernotto fino al compimento del terzo anno di età del figlio.

Ella domandava altresì la corresponsione di un assegno mensile pari ad Euro 700 a titolo di mantenimento, nonché il 50% delle spese straordinarie necessarie al minore.

Il padre si costituiva chiedendo differenti modalità di frequentazione e visita, in particolare:

– per una settimana, il venerdì dalle 15.30 alle 19.30;

– per una settimana mercoledì e domenica agli stessi orari;

– giorno di Natale o Capodanno, Pasqua o Lunedì dell’Angelo;

– a partire dal compimento del terzo anno di età del figlio, un pomeriggio a settimana dalle 15.30 alle 19.30 e, a fine settimana alternati, dalle 10 del sabato alle 19 della domenica; oltre a 15 giorni anche non consecutivi durante le vacanze estive.

A titolo di mantenimento chiedeva la riduzione della metà dell’assegno rispetto alla richiesta della madre.

La decisione del collegio

Il Tribunale di Roma, con decreto 5 maggio 2017, osservava che la naturale decisione da prendere ruotava attorno all’orbita del c.d. affidamento condiviso.

Esso è previsto appunto come regola dal novellato art. 337 ter c.c., comportando l’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale e la condivisione delle decisioni sulle questioni di maggiore interesse del minore.

Quanto tuttavia alle modalità di frequentazione padre-figlio, il Collegio ha disposto che il padre possa vedere e tenere con sé il minore, fino al compimento del terzo anno di età, un pomeriggio a settimana e a fine settimana alternati, anche la domenica con i medesimi orari ma sempre senza pernotto.

Dal compimento dei tre anni scatterà il pernotto nel fine settimana (Sabato-Domenica) di spettanza, mentre dal compimento dei sei anni il padre potrà vedere e tenere con sé il figlio un pomeriggio a settimana e durante il fine settimana alternato dal Venerdì sera alla Domenica sera.

In relazione ai periodi di vacanza, anche in questo caso l’età del bambino impone l’introduzione graduale dei pernotti continuativi.

Per le vacanze estive a partire dall’anno successivo all’accordo, si possono inserire alcuni pernottamenti, così come per le vacanze invernali (si rinvia al provvedimento per i dettagli).

In merito invece alla domanda di determinazione dell’onere da porre a carico del padre quale contributo al mantenimento del figlio, si deve aver riguardo alla situazione patrimoniale netta, in questo caso pari ad Euro 1.200 netti.

Il Tribunale ha deciso di considerare quale contributo perequativo mensile per il figlio la somma di Euro 400 a titolo di mantenimento ordinario, aggiornato automaticamente ogni anno secondo gli indici ISTAT, oltre alle spese straordinarie che sono minuziosamente descritte nel provvedimento.

Il Tribunale di Roma trae pertanto le seguenti considerazioni:

Gradualità del pernotto: in materia di regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, con riguardo alla determinazione delle modalità di frequentazione del figlio in tenera età con il genitore non collocatario, il giudice può statuire l’introduzione graduale di pernotti continuativi. Nei primi anni di vita del bambino, infatti, l’universo conoscitivo si identifica prevalentemente con un referente, in genere costituito dalla figura materna (o comunque dall’adulto di riferimento) con il quale soltanto il figlio è in grado di relazionarsi, gradualmente estendendo poi il percorso conoscitivo ad altri adulti.

Questo esclude che le figure genitoriali possano avere nei primi anni di vita del bambino pari rilevanza.

A partire dal compimento del terzo anno di vita del minore si può introdurre il pernottamento consecutivo specie in relazioni ai periodi vacanza estivi ed alle festività, introducendo gradualmente ulteriori pernottamenti.

È solo con la frequentazione del ciclo scolastico elementare che il bambino acquisisce il senso del tempo, dunque può essere introdotto un regime “ordinario” di frequentazione.

Tale considerazione deve naturalmente essere letta con riferimento al caso concreto, poiché ogni situazione porta con sé particolarità relative e pertanto può accadere certamente che il Giudice motivi diversamente una decisione che, appunto, potrebbe essere differente da quella indicata nel caso posto ad esempio.

Tuttavia il principio che governa il diritto di famiglia è immutato e tende sempre all’interesse superiore del minore, quindi alla difesa del suo diritto ad avere entrambi i genitori secondo meccanismi graduali e graduati.

La prospettiva è considerare pertanto sempre prevalente il diritto del minore ad avere le figure genitoriali, non il diritto di uno dei genitori ad imporre le proprie condizioni in tema di responsabilità genitoriale.

 

Avv. Filippo Antonelli

Brevi cenni in tema di dichiarazioni rese dal minore in ambito di reati sessuali, alla luce della Carta di Noto

Spesso possiamo notare in ambito di audizione del minore, alcune contraddizioni insite nelle dichiarazioni rese che, in effetti, possono addirittura viziare la pronuncia dell’Autorità Giudiziaria anche per le modalità con cui sono state assunte le quali, a ben vedere, possono pregiudicare la ricerca della verità processuale.

  • La rilevanza della Carta di Noto
  • Alcuni punti fondamentali
  • La giurisprudenza

La rilevanza della Carta di Noto

Purtroppo spesso il minore viene ritenuto maturo e certamente in grado di rendere dichiarazioni senza tuttavia alcun rispetto delle modalità di audizione dello stesso di cui (anche) alla Carta di Noto (sulla cui importanza si veda, ex plurimis, Cass. Pen., sez. III, n. 39411/2014).

In tema di deposizione della persona offesa minore in materia di reati sessuali, ad esempio, è necessario infatti tenere conto di ulteriori aspetti oltre alla capacità di testimoniare, unico elemento spesso erroneamente valutato.

Si deve necessariamente considerare e valutare la capacità della minore di elaborare le informazioni, il contesto di relazioni familiari ed extrafamiliari, con opportuno aiuto di scienze pedagogiche, psicologiche e sessuologiche al fine di poter parlare di attendibilità.

Alcuni punti fondamentali

La Carta di Noto, nella sua versione aggiornata al 14.10.2017, indica le linee guida per l’esame del minore.

Al punto 8 della Carta si può leggere: “Durante l’intervista va verificato se il minore ha raccontato in precedenza i presunti fatti ad altre persone e con quali modalità”.

Al punto 14 si può leggere, ancora: “In sede di accertamento dell’idoneità specifica è necessario chiarire e considerare le circostanze e le modalità attraverso cui il minore ha narrato i fatti a familiari, operatori sociali, Polizia Giudiziaria ed altri soggetti”.

Sulla linea di tali studi scientifici la Carta di Noto sottolinea la necessità di analizzare le dichiarazioni rese dal minore considerando le modalità attraverso le quali il medesimo ha narrato i fatti ai familiari, alla Polizia Giudiziaria, all’Autorità Giudiziaria e ad altri soggetti, tenuto conto di sollecitazioni e modalità di racconto, se la narrazione fosse spontanea o sollecitata e fino a che punto sollecitata da parte di figure significative (come un genitore o un parente), nonché dal contenuto delle primissime dichiarazioni rilasciate.

Altrettanto significativo il punto 18 della Carta: “Non esistono segnali psicologici, emotivi e comportamentali validamente assumibili come rivelatori o “indicatori” di una vittimizzazione. Non è scientificamente fondato […]” nonché il punto 19:

Non è possibile diagnosticare un disturbo post-traumatico da stress o un disturbo dell’adattamento ricavandone l’esistenza dalla sola presenza di sintomi, i quali potrebbero avere altra origine“.

Tutto ciò sottolineando ulteriormente altre modalità previste per le audizioni dei minori, come la particolare attenzione ad alcune situazioni specifiche (punto 20 della Carta) che sono considerate idonee ad influire sulle dichiarazioni dei minori, ovvero (tra le altre):

– allarmi generati solo dopo l’emergere di un’ipotesi di abuso;

– fenomeni di suggestione e di “contagio dichiarativo”;

– condizionamenti o manipolazioni anche involontarie (es. contesto psicoterapeutico, scolastico ecc.).

La giurisprudenza

Benché infatti il Giudice possa trarre il proprio convincimento in ordine alla responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta al vaglio positivo la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 co. 3 e 4, c.p.p., è stato però precisato che nel caso di parte offesa dei reati sessuali di età minore è necessario che l’esame della credibilità sia onnicomprensivo e tenga conto di più elementi.

Benché, infatti, il divieto di porre domande suggestive non operi a proposito delle domande poste dal giudice, non possono comunque essere poste domande nocive, dovendo essere comunque salvaguardata la genuinità delle dichiarazioni e non compromessa l’attendibilità della loro fonte. Deve inoltre tenersi conto della problematicità connessa alla distanza cronologica tra il momento di verificazione dei fatti e quello in cui le persone offese vengono esaminate, con il conseguente onere per il giudice di una motivazione rafforzata che dia conto della inidoneità del distacco temporale ad incidere sull’attendibilità di tali dichiarazioni, in particolare in presenza di fattori di disturbo o comunque in grado di alterare il corretto ricordo dei fatti (Cass. Pen., sez. III, n. 46592/2017).

 

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: L’audizione del minore nel processo penale
(www.StudioCataldi.it)

Accertamenti fiscali: contraddittorio tra contribuente ed ente

Ricorso avverso accertamenti fiscali fondati su documentazione contestata dal Contribuente e dovere di lealtà e collaborazione

 

Avv. Filippo Antonelli – Il caso che genera la presente trattazione trae origine da responsabilità di terzi rispetto ai ricorrenti-contribuenti; l’Ente accertatore ha tuttavia fondato l’accertamento sulla base di una documentazione disconosciuta, ovvero la documentazione falsamente redatta e presentata da un Professionista depositario delle scritture contabili dei ricorrenti.

La vicenda

Certamente l’Ente intende sempre ribadire l’obbligo del contribuente e la personalissima responsabilità del medesimo nell’adempiere ai propri doveri fiscali e tributari, ma la totale buona fede e lo spirito collaborativo che fin da subito i ricorrenti mostravano nei confronti dell’Ente, senza mai nascondersi o risparmiare sforzi ai fini della ricostruzione della vicenda, non possono essere ignorati.

I contribuenti sin dai primi chiarimenti richiesti si sono adoperati al fine di chiarire dubbi e far emergere quanto poi con tutta evidenza è emerso: la truffa ai danni dei medesimi da parte del depositario delle scritture contabili.

Non è questa la sede per evidenziare profili di responsabilità penale ma sicuramente si tratta di un aspetto che inevitabilmente ha reso impotenti i ricorrenti e che li ha visti involontari protagonisti di un – forse, evitabile – contenzioso tributario.

In particolare nel caso in esame si era in presenza di deleghe false ai fini del deposito della documentazione contabile, disconosciute espressamente dai ricorrenti e attestanti una evidente volontà truffatrice in capo al Professionista tenutario delle scritture contabili.

In effetti si deve inderogabilmente considerare il contegno tenuto dai ricorrenti, che fin dalle prime richieste (in particolare un Questionario) hanno messo a disposizione dell’Ente tutta la documentazione in loro possesso, denunciando le irregolarità commesse dai gestori della contabilità nonché prodigandosi per quanto in loro potere al fine di recuperare ogni documentazione utile e necessaria, anche e soprattutto al fine di dimostrare la loro estraneità rispetto ai fatti.

Giurisprudenza nazionale

D’altronde è la stessa Corte di Cassazione, sez. tributaria, con pronuncia del 04.04.2014 n. 7978 a sottolineare che, in materia di ripartizione dell’onere probatorio fra Ente e contribuente, sussiste un obbligo per l’Ufficio di dimostrare la corretta sequenza procedimentale anche in ipotesi di accertamenti scaturiti da attività di controllo svolta mediante invio di questionari al contribuente (come nel caso di specie).

Non solo. Per completezza i Giudici hanno rilevato che laddove l’Ente non contesti il contenuto “non fiscalmente rilevante” dei documenti prodotti dai contribuenti, né tantomeno la veridicità ed attendibilità dei dati forniti – dunque la loro sostanziale aderenza alla realtà fenomenica economica – esso dovrà soccombere rispetto al contribuente poiché è rispettato il principio di effettività del soddisfacimento degli obblighi fiscali sostanziali.

Nel caso che ci occupa ogni documentazione prodotta dai contribuenti è sintomatica e chiara nell’evidenziare una responsabilità di terzi in merito a tale accertamento.

Non è sostenibile pretendere di più dal Contribuente, stante la buona fede e il suo spirito di collaborazione con l’Ente che non devono essere ignorati.

Ancora la Suprema Corte (sez. tributaria, n. 22126/2013) statuisce che il mancato esame di siffatti elementi contrastanti con l’accertamento de quo siano tali da invalidarlo con certezza poiché fonte conoscitiva idonea a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione tale che, se ritenuto presente dal Giudice, avrebbe comportato una decisione differente.

Si consideri altresì l’invio del questionario che ha generato l’accertamento, il quale comporta l’instaurazione di un particolare iter procedimentale con almeno tre tappe: a) invio e fissazione di un termine minimo per adempiere alle richieste indicate; b) avvertimento delle conseguenze in caso di inottemperanza; c) risposta dell’interessato.

Tale meccanismo mira al dialogo tra Ente e Contribuente, favorendo la definizione delle rispettive posizioni e prevenendo contenziosi, attesi i canoni di lealtà, correttezza e collaborazione in materia tributaria (Corte Costituzionale, n. 351/2000).

Di fatto l’Ente rifiutava di approfondire quanto in buona fede esposto dai ricorrenti nel successivo ricorso presentato, ignorando – pretestuosamente – che la documentazione posta a fondamento dell’accertamento potesse essere contraffatta.

Tale comportamento dell’Ente costituiva un illegittimo rifiuto (per definizione doloso).

La parte pubblica non si avvicinava minimamente a quella condotta di buona fede e lealtà fin da subito tenuta dai ricorrenti. L’Ente doveva adeguare la propria condotta a quel canone costituzionalmente orientato che è fissato e codificato come principio tributario. Si tratta del medesimo principio di lealtà sfociato negli artt. 6 e 10 dello Statuto del Contribuente, canone ermeneutico decisivo.

Sulla stessa linea la nota pronuncia della sez. Tributaria della Suprema Corte n. 9892/2011 dove si afferma chiaramente che in tema di accertamento improntato al principio del contraddittorio, come quello mediante questionari, una volta che il contribuente abbia ottemperato alle richieste di chiarimenti per tutto quanto in suo possesso e potere, graverà sull’Amministrazione l’onere di contestarne la veridicità, idoneità probatoria, qualificazione giuridica e, in generale, la correttezza in termini di deducibilità della documentazione.

L’Ente non ha mai provveduto a contestare la veridicità, idoneità e correttezza della documentazione messa a disposizione dai ricorrenti, dalla quale emerge senza dubbio alcuno la responsabilità di terzi in ordine agli accertamenti compiuti.

Giurisprudenza sovranazionale

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Non vi saranno dubbi pertanto sulla legittimità di un accertamento induttivo da parte dell’Ente impositore, ma a patto che il contribuente possa contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo.

Di tale avviso è anche la giurisprudenza sovranazionale della Corte di Giustizia UE, la quale con pronuncia del 21.11.2018 Est. Juhasz sottolinea che deve essere consentito e garantito al contribuente, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare le risultanze e di esercitare il proprio diritto ai sensi delle disposizioni normative vigenti.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: Accertamenti fiscali: contraddittorio tra contribuente ed ente
(www.StudioCataldi.it)

Reato di diffamazione aggravata sui social network

La particolarità del requisito dell’assenza dell’offeso e l’importanza dell’indirizzo IP nel quadro probatorio relativo alla fattispecie del reato ex art. 595 del codice penale

 

Con riferimento alla fattispecie del reato di diffamazione, sembra doveroso ricordare che l’art. 595 c.p. è un reato comune di pericolo che si verifica con la comunicazione dell’offesa a più persone; quando la comunicazione avviene in tempi diversi, esso si consuma nel momento in cui si perfeziona la comunicazione con la seconda persona. Per quanto attiene l’elemento soggettivo, unanime dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere applicabile il dolo generico, anche nella forma eventuale.

  • Diffamazione: tre requisiti caratteristici
  • Le esimenti applicabili
  • L’importanza dell’indirizzo Ip

Diffamazione: tre requisiti caratteristici

A tal proposito la dottrina è unanime nel ritenere che l’elemento soggettivo della diffamazione consista in tre requisiti caratteristici:

  1. a) assenza dell’offeso;
  2. b) offesa alla reputazione di una persona;
  3. c) comunicazione con più persone.

Per quanto il terzo requisito sia sicuramente integrato nei casi di comunicazione via social network (che definiscono la diffamazione aggravata ex art. 595 co. III c.p.), sarà opportuno analizzare i requisiti sub a) e b).

L’assenza dell’offeso

Con riferimento al requisito dell’assenza dell’offeso, secondo la dottrina (Giachello – Giurisprudenza Penale) l’espressione “fuori dei casi indicati all’articolo precedente” contenuta nell’art. 595 c.p. deve interpretarsi nell’ottica della non presenza del soggetto passivo nel momento in cui il reato si consuma. La ragione consiste nell’impossibilità per il medesimo di difendersi, non potendo percepire direttamente l’offesa. Proprio questa analisi rende la diffamazione delitto non solo più grave ma soprattutto diverso rispetto all’ingiuria, fattispecie prevista all’art. 594 c.p. ed ora abrogata.

Un evidente ossimoro attinente la diffamazione (ad esempio) a mezzo Facebook consiste in un aspetto giuridico importante evidenziato in dottrina ma anche in giurisprudenza: sussiste un’esimente allorquando la critica venga formulata alla presenza del criticato o, quantomeno, di coloro che possano contrastarlo. Dato il requisito dell’assenza infatti le frasi proferite devono essere considerate offensive qualora estemporanee, cioè pronunciate al di fuori di una discussione alla quale possa partecipare la persona offesa o soggetti terzi in grado di difenderne l’onore. Pertanto continueranno ad essere diffamatorie frasi pronunciate sul proprio profilo privato o all’interno di commenti che nulla hanno a che vedere con il post di riferimento. Viceversa, qualora sia in corso una discussione vera e propria, che trae origine da un post privo dell’intento di denigrare, ma anzi diretto ad aprire una discussione ovvero di commentare una notizia, la conseguenza è che non si potrà parlare di vera e propria diffamazione, difettando del requisito in questione.

L’offesa alla reputazione della persona

Si consideri ora brevemente il secondo requisito, l’offesa alla reputazione della persona. In ordine all’offesa alla reputazione, si fa riferimento ad un reato in grado di ledere o di porre in pericolo un diritto costituzionalmente tutelato, che è quello all’onore e alla reputazione della persona offesa: si tratta di un reato di pericolo. Risulta evidente pertanto un ragionamento che tenga conto della reale offensività della condotta, anche potenziale. La stessa giurisprudenza di legittimità considera Facebook, ad esempio, quale bacheca alla quale la persona quotidianamente si approccia e nella quale si è continuamente “bombardati” con migliaia di informazioni impossibili da ricordare tutte e, pertanto, bastano pochi post letti successivamente a sommergere il ricordo di quanto visto in precedenza.

Si consideri altresì che “ai fini della valenza lesiva il messaggio deve essere contestualizzato, ossia rapportato al contesto spazio-temporale nel quale è stato pronunciatotenuto altresì conto dello standard di sensibilità sociale del tempo e del contesto familiare o professionale in cui si colloca” (Cass. Pen., sez. V, 13.07.2015, n. 451).

Le esimenti applicabili

Le censure eventualmente offensive dell’altrui reputazione possono essere considerate anche espressione del legittimo diritto di critica se oggettivamente riferite all’oggetto della discussione e non trasmodanti nella gratuita denigrazione della persona cui sono destinate (Cass. Pen., n. 28685/2013). L’offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato deve essere valutata nel contesto nel quale le espressioni vengono pronunciate e le affermazioni spesso sono ampiamente coperte dall’esimente del diritto di critica. È opportuno ricordare che la giurisprudenza di legittimità da tempo risolve i problemi legati a Facebook secondo il bilanciamento di contrapposti interessi, che chiama in causa la scriminante di cui all’art. 51 c.p. poiché la diffamazione offende sì l’onore e la reputazione di una persona, ma allo stesso tempo applicando troppo rigorosamente questa fattispecie si comprimerebbe il diritto di critica. Come noto, affinché sussista tale scriminante occorre veridicità, continenza ed interesse per la notizia. Per quanto riguarda la continenza, è noto che la Cassazione riconosce che il soggetto agente perde la propria imparzialità – ancor più di quanto già consentito – ed ammette toni aggressivi. La critica deve consistere in un dissenso motivato, anche estremo, rispetto alle idee ed ai comportamenti altrui purché tale modalità espressiva sia proporzionata e funzionale all’opinione e alla protesta in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi (Cass. Pen., sez. I, 13.06.2014, n. 36045). Secondo la giurisprudenza, pertanto, il diritto di critica postula un ulteriore affievolimento dell’incidenza di frasi diffamanti.

Ulteriore causa di non punibilità applicabile è sicuramente quella di cui all’art. 599 c.p. ovvero la provocazione. I requisiti fondamentali sono l’elemento oggettivo dell’ingiustizia del fatto altrui oltre alla conseguenza diretta, cioè l’aver agito nello stato d’ira cagionato dal fatto ingiusto. Vi è chi ritiene che ulteriore requisito fondamentale sia la proporzionalità delle condotte, anche se parte della dottrina propende per la tesi negativa. È necessario, ai fini della sussistenza dell’esimente, che la reazione offensiva si verifichi subito dopo il fatto, nonostante la giurisprudenza di legittimità ammetta il riconoscimento della provocazione anche a distanza di tempo dal fatto provocante.

 

L’importanza dell’indirizzo Ip

Con la recentissima sentenza numero 5352 del febbraio 2018 la Corte di Cassazione affronta il delicato tema dell’individuazione dell’autore di un messaggio diffamatorio pubblicato sul web, in particolare con riferimento alla piattaforma Facebook.

 

La Suprema Corte evidenzia come a prescindere dal nickname utilizzato, l’accertamento dell’IP di provenienza del post può essere utile per verificare unicamente il titolare della linea telefonica associata. Ulteriore e decisivo argomento è spesso caratterizzato dalla carenza istruttoria circa la verifica tecnica dei tempi e degli orari della connessione.

Non ci sono altri termini per vedere la questione: spesso non vi è modo di conoscere l’identità dell’utilizzatore del profilo Facebook nel frangente in esame.

D’altronde gli elementi indicati sono spesso corroborati dalle scelte della maggiore parte delle Procure della Repubblica presso i Tribunali: è sempre più frequente il ricorso a richieste di archiviazione per fattispecie come quelle descritte. Si consideri che per i commenti asseritamente diffamatori che avvengono unicamente attraverso la rete Facebook, per risalire all’identità dell’autore del reato occorrerebbe procedere a compiere accertamenti informatici, richiedendoli all’azienda statunitense Facebook Inc. con invio dei dati spesso impossibile per le condizioni di reciprocità non sussistenti con gli U.S.A. in ordine a tale reato. Inoltre l’individuazione dei file log non permetterebbe neppure di risalire con elevata probabilità logica all’individuazione del responsabile del fatto di reato contestato: l’analisi suddetta consente di stabilire se un determinato utente in un particolare giorno e ora si è collegato alla rete tramite un provider, data e ora della navigazione, l’indirizzo IP utilizzato, anagrafica dell’intestatario di un contratto di utenza Internet. È importante capire, in ogni caso, che l’indirizzo IP potrà al massimo costituire un mero indizio.

L’individuazione dell’indirizzo IP non costituisce l’elemento probatorio univoco, poiché se da un lato permette di individuare l’utenza telefonica presso cui è avvenuto l’accesso a Internet, dall’altro non consente di giungere all’identificazione certa o altamente probabile del responsabile.

Quanto affermato si inserisce nel solco del ragionamento effettuato dalla Suprema Corte che ritiene insufficienti le motivazioni delle sentenze di condanna qualora sia prospettato il dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputato, così mal utilizzando il criterio legale di valutazione della prova di cui all’art. 192 co. II c.p.p., quanto alla convergenza e precisione degli indizi posti a base della ritenuta responsabilità.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: Reato di diffamazione aggravata sui social network
(www.StudioCataldi.it)